Dalla piazza al greto del fiume
Con l’imminente demolizione della vecchia fabbrica, un progetto di partecipazione raccoglie testimonianze e documenti – la storia in un monumento locale.
Casa è il posto dove si crea la propria memoria, e quindi la propria persona. In una casa nuova puoi anche non sentirti a casa, almeno finché non ritrovi immagini familiari, siano foto o oggetti, che ti riportano in quello spazio immaginario conservato nella memoria. Casa può essere anche una persona. Casa può essere un luogo di lavoro, per i fortunati a cui quel lavoro piace, e che lì creano giorno dopo giorno dei bei ricordi.
Casa può persino essere un frantoio.
Il fiume Enza è un serbatoio di materiale edile dal Medioevo, da quando nel castello c’era la calcara, un pozzo che era anche una riserva di calce cui attingere per costruire case e strade.



Ma è solo negli anni ’20 che è stato costruito il primo frantoio dei Gualerzi. Siamo in piena epoca fascista e i Gualerzi andavano in giro muniti di manganelli a guastar feste, ma a guastare la costruzione di un luogo, e di una memoria collettiva, non sono riusciti.

Il frantoio di Montecchio ha richiamato lavoratori dalle lande circostanti per decenni. In tempi di miseria, un intero quartiere è stato costruito a ridosso del frantoio, a ridosso dell’Enza. Case su case su case. Tirate su in 2/3 giorni, perché quella volta non c’erano tanti piani regolatori o norme edilizie. Tutti gli abitanti del Borgo Enza lavoravano dentro o fuori il frantoio.

A un certo punto la zona era stata soprannominata “Siberia” perché erano tutti socialisti o comunisti. E però negli anni ’20 tale signor Rabitti, che lì viveva, aveva fatto un voto: se i suoi 3 figli maschi fossero tornati dalla Prima Guerra Mondiale avrebbe costruito una chiesa. E la chiesettina con il piccolo campanile, nonostante a un certo punto i comunisti avessero minacciato di abbatterla, è ancora lì in Siberia.
Borgo Enza, frazione di Montecchio Emilia che fronteggiava il frantoio e l’argine del fiume.
Nel Borgo Enza vivevano lavoratori del frantoio stretti intorno alla propria fortuna, operai che lavoravano dentro alla struttura in legno prima, in cemento poi, e umanità varia a fargli da satellite, dimenticata dai più, eppure ancora in quel di Montecchio: barosèr, i birocciai.
Gente che caricava sul proprio carretto badilate di ghiaia da portare fino al frantoio, dove veniva trasformata in ballast, o balàstra (quella cosa che si può vedere ancora oggi sotto i binari dei treni), pietrisco o pietriscone, e poi anche in cemento. Cemento usato per costruire strade, e case anche.
Nella sua di casa, ancora a Montecchio, ancora la stessa di quando aveva 4 anni, e ora ne ha 84, la signora Neda Bertani, al campanello solo “NEDA” (da notare che Bertani è lo stesso cognome del primo capocantiere del frantoio, Armando Bertani, il “ciottolaio”, lo stesso che fu il maestro di Rebecchi, che nel frantoio, anche grazie a lui, si sentiva a casa), nella sua casa, Neda conserva ancora e con orgoglio, appesa alla porta, la stellina del lavoro consegnatale nel ’49 dalla CGIL in onore dei quintali di ghiaia che ha sollevato per più di un decennio.
Neda Bertani, birocciaia sull’Enza.
La signora Neda, la caretèra, con i piedi nell’Enza ci è finita per disgrazia, quando il padre, lei allora 13enne, è stato schiacciato da un convoglio di camion tedeschi. Era il 1943, c’era la guerra, e con la guerra i bombardamenti sul ponte dell’Enza. Bombardamenti che tra l’altro hanno ucciso un ragazzino che faceva da vedetta, un giorno d’estate, quando tutti si divertivano nel fiume che per Montecchio era come il mare o come una piscina. C’era la guerra, c’erano i bombardamenti e c’erano i tedeschi, e quando il padre di Neda è stato in ospedale per 100 giorni tra la vita e la morte, ci ha pensato lei, insieme alla sorella, a portare i soldi a casa, perché in un modo o in un altro bisognava mangiare.
Neda Bertani, birocciaia sull’Enza.
“Ci toccava fare il pane di notte”
Non che fosse una cosa inedita lavorare a quell’età. I bambini potevano trovarsi già a 10 anni con un “badilino” in mano per raccogliere almeno la sabbia, o magari potevano lavare la ghiaia, o almeno scacciare le mosche dagli occhi dei cavalli dei birocci. La signora Neda ha sollevato tanta ghiaia che aveva i muscoli come sassi, e senza pensarci troppo ha anche deciso che i pantaloni erano decisamente più pratici dei vestiti quando si trattava di caricare, salire e scendere dal carretto, e così senza fare una piega ha affrontato gli sguardi tra lo stupito e il malevole dei ragazzi del suo paese. E così la stellina.
Perché la signora Neda finiva per portare più ghiaia persino dei suoi colleghi birocciai maschi, almeno perché, al contrario di loro, lei non si fermava nelle osterie lungo il fiume a bere del vino, lei non aveva bisogno delle energie alcoliche, a lei bastavano i pomodori da mangiare lungo il tragitto, quando c’erano, o il pranzo della mamma a casa. E così il suo cavallo, al contrario di quelli degli altri, non si fermava automaticamente a mangiar biada di fronte alle osterie, ma tirava dritto fino al frantoio, dove erano di nuovo i suoi muscoli a far finire il carico dritto nei silos, o sul nastro trasportatore.
Neda Bertani, birocciaia sull’Enza.
“Ogni tanto chiedevo i soldi a mio padre per il cinema”
Per chi non sapesse come funziona un frantoio, e in tempi dove i lavori più antichi sono relegati agli immigrati e vanno per la maggiore mestieri più virtualmente orientati, si apra un piccolo momento illustrativo.



Sergio Rebecchi, operaio e capocantiere al Frantoio dal 1967 al 1988, anno della chiusura.
Il signor Bertani tra le altre ha regalato alla memoria di Rebecchi il viaggio della vita. Lui che non aveva nemmeno il passaporto, che era cresciuto con 10 fratelli, a nascondersi da piccoli quando arrivava il “padrone” perché erano troppe bocche da sfamare, “e magnéven” diceva, è stato catapultato in Germania da un momento all’altro.
Rebecchi tra l’altro beveva un litro di latte al giorno tutti i giorni, era un obbligo per tutti, prima di iniziare a lavorare, perché il latte, diceva il signor Armando, purifica. E però dice che la voce roca gli viene dalle 60 sigarette che fumava ogni dì, e non dalle polveri del frantoio. Eppure la signora Giovanna Motti, e non solo lei, dice che suo padre è morto a causa di quello che respirava lì dentro. Per non parlare degli incidenti.

Il signor Galliani, che da muratore era diventato operaio del frantoio dagli anni ’60 ai ’70, racconta di quando si è trovato a dover salvare sé e il suo braccio per il rotto della cuffia quando la camicia gli si era impigliata nel nastro trasportatore. O quando negli anni ’60 durante una tempesta il vento aveva fatto volar via il coperchio del cantiere e lui era rimasto abbracciato al pilastro principale.
Fabio Galliani – Operaio al cantiere del Frantoio.
“Il nastro trasportatore mi aveva preso la manica”
Sta di fatto che quando le condizioni di vita sono migliorate, era l’Italia degli anni ’70, la mezzadria era stata abrogata tramite una legge del ’73, i contadini sono diventati operai, in quegli anni a cavallo del boom economico il borgo Enza, quello cresciuto grazie al frantoio, si è rivoltato contro la propria fortuna.
E in effetti il frantoio era cresciuto tanto da attirare sempre più camion, e sempre più grossi, e le polveri appestavano l’aria, tanto che c’è chi ha giurato di aver visto il verde del proprio giardino solo quando il frantoio ha smesso di lavorare.
E così si arriva alla chiusura definitiva del 1988. Non che sia stata una grossa disgrazia per la decina di dipendenti che ancora lavorava per la CCPL. Molti erano anziani abbastanza da andare in pensione, altri si sono messi in proprio. Ma la demolizione della struttura in cemento nel 2014 li ha lasciati tutti nostalgici.
Perché il frantoio non è stato solo una casa per decine di lavoratori, ma è stato l’unica possibilità per molti di farcela, di sopravvivere e di costruire la propria, di casa, ed il proprio futuro, nonostante tutto.
PROJECT CREDITS
Concept: Too Design Consultancy
Design, Art direction, Project management: Francesco Bagni, Marco Denti, Ivan Pecorari
Testo, interviste: Eva Brugnettini
Ricerca storica: Franco Boni
Archivio fotografico: Cinefotoclub Montecchio Emilia (RE)
Restauro fotografie storiche: Sergio Turrini
Raccolta testimonianze dirette: scuola superiore “Silvio D’Arzo”, Montecchio Emilia (RE)
Video interviste: Mirco Marmiroli
Immagine copertina: Francesca Bertolini
Pubblicato 15 Settembre, 2014

Col supporto del Comune di Montecchio Emilia