Brani da spettacolo del gruppo “El Bornisi”
IL RASTRELLAMENTO
Tre anni di guerra. E poi, l’armistizio. Un mondo che stava cambiando. Lasciando indietro chi aveva creduto di avere il mondo in mano.
Il 30 giugno del 1944, era come se il mondo non fosse mai esistito. Insieme ai camion e agli gli elmetti dei tedeschi e dei fascisti che li accompagnavano, salì verso il Fuso il dubbio che niente fosse mai stato vero.
I camion tedeschi arrivarono a Mozzano la sera del 30 giugno. Erano armati di tutto punto. L’obiettivo era trovare e stroncare sul nascere i primi raggruppamenti di partigiani, che già avevano svolto azioni importanti.
Il lavoro, i balli, le preghiere, quelle poche cose che la gente di queste parti aveva sempre saputo. Il ritmo delle stagioni e del giorno che segue la notte.
Il primo luglio del 1944, alla notte seguì una notte ancora più lunga. E tra quel giorno e i seguenti, trentaquattro innocenti morirono intorno al Fuso.
Il primo luglio del 44 gli abitanti di questi paesi aprirono gli occhi su un mondo diverso. Il mondo che qualcun altro voleva imporre. E ne videro l’orrore.
Te li ricordi, i fuochi di luglio? Gli spari intorno al Fuso? Le grida, e la paura? Ricordi le fessure di pietra in cui ci nascondevamo, e il filo di ferro intorno ai polsi? Ricordi i loro nomi?
Pini
Seravini
Bottazzi
Notari
Canetti
Zanni
E le loro età?
27
32
22
40
81…
SILVIO MONICA
Era il 14 giugno di una primavera di canti e funerali, di quelli dove le bare passano avvolte dai tricolori, in mezzo alla folla. Quel giorno a Quinzano così ritornava Silvio Monica, partigiano, morto a febbraio sulla neve a Villa Cadè. C’era l’intero popolo della vallata da Castione Baratti, da Provazzano, da e Laurano e Paderna e tutto il popolo di Neviano.
Silvio aveva sedici anni e gli occhi forti e buoni come quelli di suo padre. Suo padre Antonio, Tugnèn, era una delle persone più forti che lui avesse mai conosciuto, anzi, il più forte. Con ammirazione il ragazzo guardava la foto di suo papà al fronte, con un uomo seduto sulle spalle e una bocca di cannone per mano: 284 chili in tutto! I Monica di Quinzano erano questo, muscoli e nervi temprati da secoli nei campi e a sollevare forme nei caseifici.
Nell’autunno del ’44 Silvio pensava ai partigiani. Alcuni dei loro capi erano passati più volte dal paese, dall’inizio di quella strana guerra senza fronti e senza cannoni, e la loro immagine, le loro camicie, le loro facce gli si erano impresse nella mente.
Non era mai nevicato tanto. Lo dicevano i vecchi, e la neve ai lati della strada era arrivata all’altezza dei fianchi. La notte del 31 gennaio a Silvio e Marcello era toccato di fare la guardia. La prima volta, era.
Di quello che successe quella notte sulla collina del Mulino, tante cose sono state dette.
Li chiamavano i Mongoli. Volontari e coscritti russi al servizio dei nazisti. Soldati esperti. Spietati. Gli ultimi mesi di guerra li avrebbero resi tristemente famosi tra i partigiani ed i civili di queste zone. Avanzavano vestiti di bianco, confondendosi con il paesaggio, per colpire duramente le forze partigiane radicate in queste valli. Silvio e Marcello furono i primi di una lunga notte di sangue e paura nella neve.
A Villa Cadè la notte sembrava fondersi con la pianura sconfinata, a formare un manto scuro e freddo che copra tutto, le case, i morti e i vivi. Dal fondo di questa notte infinita anche le montagne sembrano non esistere più, come un miraggio, un sogno insensato. Rimane il mondo come vorrebbero che fosse, in cui una fila di cadaveri a faccia in giù nella neve potrebbe anche restare per sempre. Fino a farci l’abitudine, prima che nuova neve arrivi a ricoprirli.
Silvio e Marcello avevano appena fatto in tempo a rendersi conto di quello che stava accadendo. Le fiammelle dell’arma erano parse a tutti e due come una miriade di stelle lontane che scoppiavano al centro di quella sottile riga di luce che si vedeva sull’orizzonte. Cosa diranno a casa? Silvio aveva creduto di dire. Poi era caduto insieme a tutti gli altri. Senza rendersene conto.
Mentre il corteo passava vicino al punto dove Silvio era stato catturato mesi prima, una colomba si alzò in volo dalla collina, e scese a posarsi sopra al tricolore che copriva il legno della bara. Il corteo si fermò in quel punto, stupito. La gente aveva ormai disimparato a alzare gli occhi al cielo, senza la paura dei bombardieri di giorno e dei bengala di notte.
La chiamarono Piccola. La famiglia l’aveva ritrovata ad attendere a casa, al termine della cerimonia. Ogni mattina, quando Antonio ed Elvira si svegliavano per andare nei campi, la Piccola dopo un po’ usciva di casa a tutta velocità e volava in alto, fino a quasi a scomparire alla vista, e poi scendeva in picchiata per raggiungere la sua padrona. Morì il 9 febbraio del 1961, dopo sedici anni trascorsi con i Monica. Sedici anni di vita, per una colomba, erano insolitamente tanti.